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Welcome to Zass

La copertina, morbida e leggera, diventerà un’inseparabile coccola nella crescita del tuo bambino. Colorata e personale, lo accompagnerà dalle passeggiate al parco alla nanna nella cameretta.

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Autore: Mara

Mamma

I nostri occhi, dietro alle tapparelle, a spiare il suo ritorno, riesco ancora a sentire l’alito condensato che si sprigionava dal calore che usciva dalle nostre anime, troppo eccitate.

E poi, finalmente, la scorgevamo in lontananza, sulla sua bici rosa, carica di borse al ritorno dal mercato o di fatica al ritorno dal lavoro.

Noi fratelli, tesi a svelare segreti, nostra madre troppo occupata ad organizzare qualche sorpresa.
L’avevamo scoperta! Eravamo sicuri che, tra sacchetti e borse della spesa, si celassero
i regali di Natale, ma poi, che delusione, nessun regalo.

Chissà dove li nascose

Attimi che riaffiorano nella mia mente, in momenti strani, incoerenti. Chissà com’è possibile che alcuni rimangano ben fissi nella memoria, ne puoi addirittura sentire l’odore ed altri…puff, svaniscono per lasciar spazio a ricordi più recenti.

E’ la che la vedo, seduta sui gradini della scala esterna, noi attorno a lei ad ascoltare la sua voce che racconta favole e filastrocche (le stesse che poi ho narrato a mia figlia) e ad aspettare che il sole andasse ad “incastrarsi” dietro i colli
E’ lì che vorrei tornare, a sentire il fresco del marmo sotto di noi nelle lunghe ed afose serate estive, ad appoggiare la mia testa su di lei, a sentirmi protetta, a sentirmi dire che tutto va bene, a sentire le nostre risate confondersi col canto delle cicale.
Ad aspettare che il mondo, intorno a noi, si addormenti.

Vorrei ancora ritrovare quel suo sguardo che, di colpo, mi toglieva il tutto dalla testa.
Quello stesso sguardo che ancora mi tiene insieme.

La casa dove abitavamo, della quale mia madre ne era la regina, celava al suo interno diversi “nascondigli
La soffitta era abitata da un terribile mostro, un armadio, dall’anta cigolante, era il rifugio di un fantasma dispettoso.

La cucina era invece il porto sicuro.
Il “suono” delle stoviglie, la radio sintonizzata su vecchie canzonette. La sigla del TG che richiamava tutti a tavola per la cena, quindi pigiama e poi a letto.

Dove siamo ora? Dove possiamo ritrovarci se ora manca la “regina”?
Nei primi tempi il mio pensiero andava a lei quotidianamente, poi sempre più di rado.
Ora ogni intanto il mio sguardo scorge una sua foto e mi sento in colpa per non averla pensata più spesso, la vita però è così, ci porta sempre avanti ed a volte ci si può dimenticare ciò che abbiamo lasciato alle spalle, vero mamma ?

Tra alcuni giorni sarà la festa della mamma, ed il pensiero va a tutte le mamme, a tutte quelle persone che hanno cresciuto o che stanno crescendo un figlio
Mamma non ha sesso, colore o forma, mamma è la persona che cresce un bambino, lo aiuta, lo protegge
Gli dice “ti amo

Sono nata

14 APRILE ORE 14:30
Ecco, sono nata, un vagito mi annuncia al mondo

Li sentivo bisbigliare, i miei fratelli, e poi, come d’incanto, svanivano nel nulla.
Due fratelli ed una sorella, io la quarta.

L’intrusa

Sei anni tra me ed il fratello più grande, almeno due secoli quando si è piccoli
Gli altri due, gemelli.

In questo caso ciò che mi divideva da loro, non era tanto la differenza di età quanto la loro intesa
Io, la più piccola, sono “arrivata” più o meno per caso.
A dire il vero ancora non riesco a capire il significato “nata per caso”, diciamo che, dopo tre figli, averne un quarto era un impegno non indifferente ed i miei genitori si sono distratti un attimo.

Ecco sì, potrei dire che casualità e distrazione, in questo caso, possano essere sinonimi

Tornando a ciò che precedentemente ho scritto, pensavo ci fosse, nei bisbigli dei miei fratelli, una sorta di magia perché subito dopo erano introvabili
Letteralmente sparivano

Un po’ alla volta capii che la magia consisteva nello svignarsela lestamente, per non avermi con loro
Ero considerata una palla al piede!

Non mi destreggiavo ancora bene con la bici, mentre loro sfrecciavano sui marciapiedi e per le viette del paese
Correvano sui campi arati, mentre io ero ancora impacciata nel superare i solchi dell’aratro.
Essendo loro più grandi, erano anche responsabili della mia incolumità,
Mio padre era molto dolce e complice, mia madre era severa, solo oggi, essendo mamma, posso dire “giustamente severa”, ma all’epoca i miei fratelli trovavano ingiusti i suoi rimproveri per tutte quelle volte che tornavo con le ginocchia “sbucciate” o i vestiti strappati.

Quindi perché avermi tra i piedi?

E poi ero la “cucciola” di casa, con tutti i vantaggi (per me) che ciò comportava e, di conseguenza, anche il risentimento dei miei tre “fratelloni”.
Fratelloni, li chiamavo così, e li chiamo ancora adesso così.
Avrei voluto seguirli sempre, erano i miei punti di riferimento, i miei esempi.
E poi arriva l’adolescenza, le regole iniziano ad essere un po’ troppo strette.

Le raccomandazioni dei miei fratelli maschi esagerate, quelle di mia sorella oppressive.
Ormai sono “grande”, pensavo, riesco benissimo a cavarmela da sola
Tranne tutte le volte che dovevo ricorrere a loro per venir fuori da qualche situazione intricata, con un po’ di vergogna da parte mia ma anche con tanta riconoscenza

Gli anni ora ne sono passati tanti, le distanze si sono ridotte, siamo ormai coetanei ma loro rimangono sempre i miei fratelloni ed io la loro sorellina

Da bambina sognavo le punte

Sento il vocio del pubblico, a volte una risata od una esclamazione, più forte di quello che il luogo si attende, seguita da diversi “ssst” che la zittiscono, ed occhiate che la inceneriscono.

Le luci della sala si attenuano, di lì a poco un oboe intona un La, con discrezione, quasi timidamente, a questo si affianca la nota prolungata del primo violino e così di seguito gli altri strumenti si associano fino a diventare una sol nota che piano scema e tace per lasciare posto all’applauso che accompagna l’entrata del direttore d’orchestra.
Qualche colpo di tosse ne approfitta dell’ultimo istante di concentrazione degli orchestrali e poi, dolcemente, l’ oboe, lo stesso che poco prima ha intonato il La, da inizio al primo movimento.

Il “Lago dei Cigni” inizia, io sono agitata, è la mia prima volta con tutto questo pubblico e, quel che è peggio, devo aspettare circa mezz’ora prima d’entrare in scena.
Tutti mi hanno rassicurato, mi hanno detto “la parte l’hai studiata bene e sei brava”, sì è vero ma la mia agitazione non diminuisce per questo.
E’ giunto il mio momento, sono concentrata, entro in scena, danzo come mai prima, la musica mi avvolge, il principe mi solleva, volo leggiadra come un cigno e…

…IL SUONO DI UNA SVEGLIA?

Ma… Chi mai porta con se una sveglia al teatro dell’opera?

E non la spegne!

La sveglia continua a suonare senza rispetto fino a che…

NOOOO

Apro un occhio, poi l’altro, il mio cuore batte all’impazzata, guardo intorno a me, frastornata, incredula, arrabbiata.

DELUSA!

Il sogno della mia vita, ricorrente, s’infrange contro una sveglia rauca ed irriverente.
Volevo essere una ballerina, con tutta me stessa.

Da bambina sognavo le punte

Volevo calzare le scarpette da danza, tenermi alla sbarra, eseguire passi dalla difficile pronuncia francese, alzarmi sulle punte e piroettare su me stessa.
Volevo ed invece la danza è rimasta solo un desiderio non realizzato.
Forse non sarei mai diventata una “etoile” e forse nemmeno una semplice ballerina.
A volte ripenso a tutti i miei sogni, ai miei desideri.
Ripenso ai “treni” transitati davanti a me, alle occasioni prese al volo a quelle non intuite o troppo faticose da cogliere.

Il pensiero mi fa sollevare impercettibilmente il labbro in una sorta di smorfia di disappunto.
Ma poi, quando capisco che un desiderio non si potrà avverare, un altro ne prende il posto, un altro obiettivo da raggiungere o cercare di raggiungere.

Un po’ come “L’Utopia” di Eduardo Galeano, che dice:
Lei è all’orizzonte. Mi avvicino di due passi, lei si allontana di due passi. Cammino per dieci passi e l’orizzonte si sposta di dieci passi più in là. Per quanto io cammini, non la raggiungerò mai. A cosa serve l’utopia? Serve proprio a questo: a camminare.

Ecco, penso che i nostri sogni servano a questo a non smettere mai di fare progetti di avere obiettivi.
A volte sembreranno più grandi di noi, molti di questi forse non riusciremo a raggiungerli ma sicuramente molti altri sì.
L’importante è avere un sogno là, proprio dov’è l’orizzonte, l’importante è provare a raggiungerlo, l’importante è non rimanere fermi.

Febbraio

Un foglio bianco, davanti a me, mi osserva e mi sfida,
lo guardo e l’ignoro.
Una matita al suo fianco, con la punta ancora da temperare.
Oggi non è giornata.
Ho bisogno di un caffè!

Esco, è freddo, l’alito si condensa e leggero sale.
Il mio sguardo lo segue fino a che non si confonde con le esili nubi che striano l’azzurro del cielo
L’argine è deserto.
Il mio passo veloce, evitando le pozzanghere, testimoni del temporale della sera precedente, mi porta verso il mio bar abituale.

Entro, il profumo, che mi ha accompagnato nel mio camminare, ora mi avvolge come una calda coperta.
Rassicurante.
Non sono golosa, preferisco di molto il salato, ma la vista delle frittelle esposte in vetrina e la loro fragranza, mi fanno voglia e mi riportano indietro nel tempo.

Le mani bianche di farina, l’uvetta, la crema e lo sfrigolare di gialle, morbide palline nell’olio.
Occhi incantati osservano questa golosa magia.
Gli avvertimenti di mia madre, sempre “dolcemente burbera”, a stare distante dai fornelli e di non mangiare le frittelle, fino a che non fossero tutte pronte
Poi, di sottecchi, osservare divertita le nostre bocche sporche di zucchero.

Gennaio ha portato via le feste natalizie, gli addobbi, le calze, i panettoni ed i pandori.
Febbraio ne prende il posto portando con sè il carnevale
Le finestre si aprono a far entrare i primi tiepidi raggi di sole di un inverno ancora distante dal salutarci .
E’ iniziato il periodo più “ridanciano” dell’anno, periodo in cui è possibile fare gli scherzi ed è vietato offendersi per questi.

E’ il periodo dei costumi e dei travestimenti
Io ed i miei fratelli non abbiamo mai amato troppo portare i costumi da fatina, da zorro o superman.
Il nostro divertimento assoluto era quello di andare alla ricerca dei vestiti dei nostri genitori indossarli e poi atteggiarsi ad adulti.

Approfittando di qualche rara assenza di entrambi i genitori, in questo periodo facevamo “incursione” nella loro camera.
Cassetti aperti mostravano i morbidi indumenti di nostra madre, le ante dell’armadio spalancate, rivelavano i seri vestiti di nostro padre.
Collane bracciali ed anelli erano le prime cose che mia sorella ed io indossavamo, e poi colorati vestiti, lunghe gonne ed ampie camicette, ancora troppo ampie per i nostri acerbi corpi. E poi smalto e rossetto ed infine le meravigliose scarpe dai tacchi sempre troppo alti per le nostre esili caviglie ma così irresistibili da non essere calzate.
I nostri fratelli invece con cravatte dai nodi impossibili, cappelli sempre troppo larghi, pantaloni sempre troppo lunghi e scarpe sempre troppo grandi per essere disinvolti.
Ma a noi non interessava tutto questo, eravamo liberi da ogni giudizio, era puro divertimento.

Ai nostri occhi, eravamo irresistibilmente affascinanti.

E poi giù a ridere a crepapelle con le lacrime agli occhi e quindi di corsa a rimettere tutto in ordine, prima del rientro di mamma e papà.

Il caffè era buono, la frittella deliziosa, il tuffo nel passato rigenerante.
Una sosta in negozio per uova ed uvetta e poi a casa.

Guardo le mie mani, sporche di farina, le finestre sono già aperte, i cassetti sono i miei e le scarpe ora mi stanno bene.

Storia di un incontro

Inizia un nuovo anno, sarebbe scontato scrivere le solite frasi di rito, quest’anno ti accompagno al 2023, con una storiella, un piccolissimo, breve racconto dell’incontro tra due amiche che non si frequentavano da qualche tempo

La vedo da distante, confusa tra le altre
No, non confusa, celata tra le altre perché…
Perché lei non si può confondere, non è come le altre
Lei è speciale
La riconoscerei tra mille
La riconosceresti anche tu
Anche se non l’hai mai incontrata

E’ da un po’ che non ci si frequenta

Il mio lavoro, sempre più complesso, sempre più serrato, mi porta via molto tempo, mi costringe a mettere in secondo piano ciò che più amo per tuffarmi nei social, nella pubblicità, nelle strategie di vendita

Ciao, faccio io
Ciao, risponde lei
Che bella che sei
Abbassa un po’ lo sguardo, come per guardare la sua figura, arrossisce un po’ e risponde “Grazie, sei molto gentile”
Ci conosciamo da sempre, è sempre stata la mia compagna di “viaggio
Ci siamo incontrate che ero piccola, molto piccola, forse il mio camminare era ancora incerto
Un giorno entrò in cucina, la guardai stupita e affascinata al contempo
Venne verso di me, alzai gli occhi verso mia madre perché mi spiegasse, mi rivelasse chi fosse quella nuova presenza
Non riuscivo a capire cosa ci facesse in casa, vicina a me
La guardai e la strinsi con le mie paffute manine già rapita dall’esile figura, dal profumo di buono che emanava

Mi affascinò il suo vestito, la sua morbidezza nei tratti, il suo essere docile in tutte le mie fantasie, in tutti i miei sogni

Sembra strano vero?

Ancora non mi reggevo saldamente sulle mie gambe eppure il vivido ricordo di questo incontro non mi abbandona mai
Ma ve lo assicuro, è assolutamente vero!
Non è stato sempre semplice il nostro rapporto
Ci siamo allontanate e poi di nuovo unite
A volte abbiamo discusso, litigato, come è solito fare tra buone amiche
Non ci sarebbe altrimenti confronto, crescita
Non poteva darmela vinta sempre, molto spesso sbagliavo, anche se non mi piaceva ammetterlo
Non potevo sempre fermarmi ad ogni ostacolo che lei mi opponeva quasi lo facesse apposta,
Forse per farmi migliorare

Siamo cresciute insieme

Insieme abbiamo segnato le “linee” della nostra vita, della mia vita
Linee non sempre rette
A volte sinuose, altre arzigogolate
Linee che mi davano gioia ma anche delusione
Io a provare allo sfinimento
Lei a “consumarsi”, perché potessi lasciare una traccia che alla fine mi ha portato a quella che sono adesso

Qualche giorno fa sono andata in una “antica bottega” dove, ero certa, l’avrei incontrata
Prima di entrare il profumo già annunciava la sua presenza
Quel momento d’attesa volevo che durasse all’infinito
Una attesa che sapevo si sarebbe risolta con un incontro
Molta gente tra le corsie, aromi buoni
Di colori ad olio, di acquerelli
Il profumo delle gomme per cancellare, quelle bianche e morbide, non quelle rosse e blu che mi laceravano sempre i fogli dove disegnavo
Odore di trementina e tele ancora vergini
Il Das, la creta e poi
Poi la vedo confusa tra le altre
No, non confusa, celata tra le altre
Lei non si può confondere
La guardo e sorrido
Sempre esile e profumata, in un’elegante veste rossa
Ciao faccio io
Ciao mi risponde lei, è da un po’ che non ci vediamo
Abbasso gli occhi, mi sento un po’ colpevole
Ma poi ci osserviamo ed il tempo non è mai passato
Non ci siamo in realtà mai lasciate
Siamo sempre noi, con le nostre vite parallele che si intersecano ogni volta che ci cerchiamo, che ci incontriamo
La prendo, la stringo tra le dita
Il suo tratto è di un nero profondo, morbido ma sicuro e netto
Non semplice se non si è in sintonia

Vado alla cassa, una voce mi fa: “La matita? Gliela metto in un sacchetto?”
Quasi con timore stringo ancor più forte a me la mia rossa amica e rispondo “no grazie, è da un po’ che non ci si vede e ci dobbiamo raccontare un sacco di cose”

La matita per me è stata da subito l’estensione naturale dei miei pensieri, dei miei sogni
E’ sempre stata l’alleata fedele, quella che sai non rivelerà mai a nessuno i segreti a lei affidati
Ora lavoro molto col computer, uso fantastici programmi come Illustrator, Photoshop e altri ancora.
Mi permettono di fare cose che, solo pochi anni fa, pensavo fossero fantascienza.
Ma poi, se veramente mi voglio divertire, se veramente voglio tradurre concretamente le mie idee, i miei progetti, devo avere vicino a me i miei colori, i miei pennelli e la mia insostituibile matita.

Il profumo dei ricordi

Un occhio si apre
A fatica
L’altro non ha la minima intenzione di seguire l’esempio del primo
Il sole, anch’esso, stamani non ha molta voglia di svegliarsi
Ma è un suo obbligo
Non certo il mio e così mi giro dall’altra parte

L’occhio, quello sveglio, si accorge che il letto, quello vicino al mio, è vuoto.
Mia sorella già in piedi?

Strano

Rumori domenicali giungono dalla cucina e con essi un buon profumo da qualche tegame sui fornelli
Di domenica la casa si riempie di buoni profumi di cibo
D’altronde mia mamma è una cuoca sopraffina
Ed è bravissima nel fare i dolci

Sì i profumi sono invitanti

Ma è così presto, perché farmi violenza ed uscire dal letto?
In questo freddo inverno
Con il sole, per giunta, che ancora non si vede in giro

Ma dov’è?

Voci dei miei fratelli
Anche loro già alzati?
Ma cosa succede oggi?
Ma allora sono solo io ancora a letto?
E poi un pensiero mi scuote

Oggi è Natale

Ed allora non c’è più sonno, non c’è più pigrizia, il sole ancora è basso, è freddo fuori dal letto ma non me ne accorgo
I piedi sono scalzi, bene scendo più velocemente le scale, già arrabbiata perché nessuno mi avrà aspettata.
Arrivo e tutti all’unisono mi dicono “finalmente, eravamo stufi di aspettarti!”
Un grande sorriso, il mio, li ringrazia e ci tuffiamo tra i regali che Babbo Natale ci ha portato

I miei pensieri fanno un tuffo nel passato

Penso che non ci sarebbero ricordi ben vivi se non fossero accompagnati dai profumi
Le domeniche, le feste in generale, erano annunciate, già al mattino da profumi rituali

Mio padre non ha mai esternato a parole il suo affetto, ma al mattino, dopo essersi rasato e vestito, entrava nella mia cameretta annunciato dal profumo di dopobarba, si sedeva sul letto e appoggiava la sua mano sulla mia guancia
Ed io che guardavo le sue di guance, raspose alla sera di ritorno dal lavoro, ora morbide e profumate

Quel profumo che mi accompagnava fino a sera

Sento ancora, con un brivido di piacere, attorno a me le braccia di mia madre quando mi accoccolavo a lei
Alla domenica il suo profumo era profumo di cibo appena cotto, di biancheria lavata
Era l’odore acre del tabacco della sigaretta del mattino

Di quanti odori abbiamo bisogno per non dimenticare e per riconoscere

La legna nel caminetto, il pane ad abbrustolire, le caldarroste a scoppiettare,
la pizza nel forno al mercoledì, per la consueta serata in famiglia, il caffè latte al mattino e il brodino per la convalescenza dopo un’influenza

E poi ancora

L’essenza balsamica nelle camere durante l’inverno, il profumo del vapore dopo il bagno,
L’odore delle giacche stese ad asciugare dopo una giornata di pioggia, e quello della nebbia che ti fa pizzicare il naso

Tanti ricordi celati, nascosti

Episodi dimenticati che tornano a galla
Si chiama “Sindrome di Proust” o “Madeleine de Proust” il potere di un gesto, un colore e soprattutto un profumo, di far riaffiorare alla mente un momento positivo del passato
Profumo non tanto come percezione di un odore in se, ma evocativo di eventi emotivi

Il dopobarba non come profumo ma come rivivere l’emozione di mio padre seduto sul letto e la sua mano sulla mia guancia
Gli aromi del cibo appena sfornato, non come appetitoso pasto ma l’emozione delle braccia di mia madre strette attorno a me

Voi a quali profumi siete emotivamente sensibili?

I Luoghi del cuore

Da bambina vedevo lunghe fila di uccelli, disposti sui fili della corrente come note musicali su di un pentagramma, aspettare un tacito segnale per partire.
Io sognavo di spiccare il volo con loro per visitare lontane terre, a me sconosciute, lasciare un paese nel quale non mi riconoscevo, mi era stretto e noioso.

No, non sto riproponendo il blog del mese scorso, voglio solo riallacciarmi a ciò che il mese scorso scrivevo per poi portarvi in volo con me.

Cile, gennaio di molti anni fa, estate australe. Aveva da poco smesso un’intensa nevicata, il cielo si è magicamente aperto. Il sole faceva fatica a scaldarmi sul ponte di un traghetto che da Porvenir, Terra del Fuoco, mi portava a Punta Arenas.

Due ore circa per attraversare lo Stretto di Magellano, vento gelido, gli occhi che lacrimano, lo sguardo incantato nell’osservare un grande Albatro che, per tutta l’attraversata, ci accompagna.

Non un battito di ali, ogni tanto un giro attorno alla nave per riprendere una corrente più favorevole e poi di nuovo lì, elegante, le grandi ali spiegate, a scrutarci, forse incuriosito.

Ho sempre pensato di essere figlia del mondo, ogni luogo che ho visitato, che ho conosciuto, ha lasciato in me dei ricordi, delle sensazioni indelebili.
Ci sono paesi che rimangono nella mente per un odore od un gusto che hai assaporato, nelle orecchie per delle voci o dei suoni che hai ascoltato, alcuni li ricorderai per sempre per panorami osservati, per gesti di offerta o per sguardi rubati.

Ci sono luoghi che ti entrano nel cuore e sono quelli che ti hanno cambiata, formata, collocata.

Io li ho eletti luoghi del cuore, rifugiati nel mio intimo e sempre pronti a venir fuori quando, a volte, un po’ di tristezza si affaccia in me.

E poi il ritorno, un biglietto nella mano, uno scalo aereo, una stazione.

Delicatamente atterro e chiudo le ali che mi hanno sorretta in questo mio volo.

Oggi penso che volare lontano sia sinonimo di libertà, di culture da infilare in valigia, di nodi da poter allentare, non sciogliere, solo da allentare un poco quando tutto ti sembra troppo stretto.

Torno a casa, dove tutto ebbe inizio, dove la donna che sono oggi ha iniziato il suo cammino.
Ho sempre pensato di non appartenere, quando i tuoi anni scalpitano vuoi uscire, vedere il mondo, scoprire l’ignoto
O forse vuoi solo andare lontano, scappare dal conosciuto per non essere riconosciuta. Realizzare che tutto quello che farai da quel determinato momento, sarà il tuo nuovo, la tua storia.
L’idea di appartenenza che molte volte ci rinchiude in schemi, sembrano gabbie con sbarre, create da noi stessi.
Ora, da adulta che di luoghi ne ho visti e vissuti molti, dico di avere trovato il mio posto nel mondo, ma il posto non esiste se non esisti tu come persona e quel paese dove da sempre volevo scappare ritorna ad essere un nido in cui tornare.

La donna che sono oggi non vuole scordare, vuole ricordare, non più scappare per ricominciare, ma andare avanti sulle basi create.

Scopro che c’è un unico posto dove vorrei essere ed è proprio qui dove sono, con le mie insicurezze e le mie certezze, con la consapevolezza di appartenere e riconoscermi.

Novembre mi ispira questo tema, un mese strano, di passaggio, cadenzato da emozioni e sentimenti forti, non triste ma commemorativo, è in qualche modo un ritornare, là dove il cuore batte.

Migrare

Migrare (dal latino migratio, spostarsi da un luogo ad un altro)
Di uccelli o altri animali, lasciare stagionalmente un luogo alla ricerca di sedi più accoglienti (+ a, in, verso, da ): d’inverno varie specie di uccelli migrano dai luoghi freddi verso le (o nelle) regioni calde.

Mi sveglio, la luce del sole, meno intensa di qualche giorno fa, entra dalle imposte aperte. Socchiudo gli occhi, mi alzo ed esco.
Un brivido piacevole mi scuote, indosso uno scialle sulle spalle.

L’aria è frizzantina.

Mi stendo sull’erba, ancora umida, ricca di rugiada, e guardo all’insù.
Osservo gli alberi che donano al sole le ultime foglie verdi. Il cielo, di un azzurro intenso, mi gratifica gli occhi e mi dona pace.
Nuvole bianche si rincorrono formando disegni immaginari.
Un giorno qualunque, ma sento dentro di me una nuova energia.
Vengo distratta dallo schiamazzo degli uccelli, tutti in ordine sui fili dell’alta tensione, all’inizio pochi e poi sempre più numerosi.

L’estate ci sta salutando e col suo saluto inizia la migrazione degli uccelli.
Da bambina passavo ore ad ascoltare il loro cinguettio scomposto, a volte alterato, immaginavo le conversazioni, l’organizzazione, l’appello e poi la partenza, il momento migliore. Ed io immaginavo di levarmi in volo con loro, volare senza incontrare confini, se non le alte montagne e gli azzurri mari, visitare luoghi lontani, sicura poi che in primavera sarei tornata, come gli uccelli, là dove c’è casa.

Purtroppo non è sempre così
Qualche giorno fa ero seduta in bar a fare colazione al mio solito tavolino. Bar pieno, gli argomenti soliti del periodo: i figli, la scuola che riparte, il lavoro che non ingrana ed i ritmi sempre più serrati.
Ad un certo punto il vocio si abbassa, guardo la gente, sguardo fisso alla TV ed occhi lucidi.
Il notiziario trasmette le tenere e tristissime immagini di decine di cetacei che, nel loro migrare, si sono spiaggiati, senza un motivo certo, sulle coste della Tasmania.
Rimaniamo tutti in silenzio, con la tazzina a mezz’aria non sapendo se finire il caffè o posarla sul suo piattino.
La giornata, che si preannunciava vivace ed allegra, inizia invece mestamente.

Migrare (dal latino migratio, spostarsi da un luogo ad un altro)
Di popolazioni o gruppi di persone, trasferirsi in un luogo diverso da quello di origine (+ a, in, verso, se si indica il luogo di arrivo, + da, se si indica il luogo di partenza): i popoli nomadi migravano in (o verso l’) Europa; m. dal Sud al Nord.

Noi italiani siamo fortunati, a scuola abbiamo studiato il latino, lingua della nostra cultura, e di molte parole, di molti verbi, ne conosciamo quindi il significato e l’etimologia.
Noi italiani conosciamo molto bene anche il significato intrinseco del verbo migrare.
Tra il 1861 e il 1985, 29 milioni di italiani sono emigrati e di questi solo il 35% sono tornati.

Sette anni fa, un giorno d’ottobre del 2015, ero seduta nel mio solito bar, al mio solito tavolino per la consueta colazione.
Anche quel giorno molta gente, chiacchiericcio esagerato e poi, di colpo, silenzio assoluto. Un bambino siriano (Aylan) con la maglietta rossa, senza vita tra le braccia di un soccorritore.
L’ennesima vittima della disperazione.

Come pochi giorni fa, le tazzine a mezz’aria, occhi lucidi e silenzio.
Ma qualche voce, quel silenzio, lo incomincia a rompere. “Povero bambino, che colpa aveva”? “Sì è vero, povero bimbo, ma perché non rimangono a casa loro”? “Cosa vengono a fare qua”? “Poi ci tocca anche mantenerli!

Una lacrima nel mio caffè che ora è troppo amaro da bere.

Le sfortunate balene, mammiferi come noi, sono tristemente morte ma almeno hanno avuto la comprensione di tutti.
Nessuno escluso.

Spero un giorno di rinascere balena.

Quando ero piccola volevo migrare come fanno gli uccelli.

Aria di Scuola

Eravamo rimasti al primo giorno di scuola, alla prima campanella di un lungo anno scolastico.

Ma aspettate un attimo prima di sedervi nei banchi di scuola, facciamo un passo indietro, ai giorni che precedono questo appuntamento, quell’evento che a giugno sembrava lontanissimo.

Primi giorni di Settembre, ultimi giorni per indossare spensieratamente canottiere, calzoncini, sandali.

A Settembre l’aria si fa al mattino più frizzante, il sole sorge più tiepido, a volte nascosto nella foschia del mattino.
In campagna i campi si colorano con altre tinte, il rosso delle foglie della vite ha ormai preso il sopravvento sul giallo dei campi arati.
La strada è trafficata da trattori che trainano carri colmi di grappoli d’uva matura.
In città, invece, le strade, poche ore prima semivuote, si popolano di persone che, abbracciandosi, confrontano le proprie abbronzature.
Per le strette vie del centro i racconti delle vacanze rimbalzano tra i muri di palazzi antichi ed entrano nelle finestre, aperte ad accogliere l’ultimo caldo di un estate che non vuole andar via ma che, lentamente, si congeda.

Il profumo nell’aria cambia.

Io ricordo perfettamente il profumo della cartoleria dove, qualche giorno prima dell’inizio delle lezioni, mi recavo con mia madre. Una lunga lista, per non dimenticare nulla, stretta nella mano.

Quaderni a righe e a quadri, una squadra (che l’anno precedente avevo rotto), gomme, penne e matite. In ultimo, ma non ultimo, il diario. La cosa più importante di tutto ciò che girava attorno alla scuola era sicuramente il diario.
Il diario, con le sue vignette, regalava a tutti noi qualche momento di fuga dalle soporifere lezioni del sonnolento maestro di turno o di allegria durante una giornata storta.
Una pagina era sempre pronta ad accogliere un segreto bisbigliato all’orecchio, un cuoricino per il vicino di banco, un pesce d’aprile, una formula importantissima da ricordare.

Era il nostro smartphone.

Se chiudo gli occhi ricordo il primo giorno di scuola.
Al mattino il grembiule blu era pronto nel mio armadio, il colletto bianco, stirato ed inamidato.
I capelli tirati a formare una coda, a volte così tirati, i capelli, che la testa mi doleva.

Tutti puliti, impeccabili.

La mia bici, la più piccola, sotto le altre tre.
Sul cancello mia madre col braccio alzato e la sua mano, che accompagna la nostra “partenza”, ci saluta.
I primi incontri sulla strada per la scuola, i miei fratelli che si dimenticano di me ed io di loro.
Tutti in fila, titubanti, le mie dita sul corrimano delle scale, in cerca della nuova classe.

Un anno in più.

La maestra, la stessa, ci accoglie col suo solito, caldo sorriso. Il racconto delle sue vacanze, qualche risata, il programma da svolgere, le gite che faremo ed il primo tema.
Invariabilmente: “Racconta le tue vacanze”. Titolo banale per un tema banale ma che permetterà alla maestra di capire se abbiamo letto, se abbiamo assimilato gli insegnamenti dell’anno precedente.
La nuova classe è pulita, i banchi, che quest’anno sembrano un po’ meno grandi, sono lindi.
Sembra non conservino memoria dell’anno precedente. Ma a guardar meglio scopri una sigla, un fiore, un cuore.

Chissà a chi l’avrà donato il fiore, la sigla.

La lavagna, come un grande televisore spento, presto si accenderà con frasi e tabelline, il gesso, un cancellino che ci lascerà le mani bianche fino alla ricreazione.
RICREAZIONE!!! La tanto agognata ricreazione si annuncia con un timido scampanellio. Di corsa giù in giardino. In cerchio, le solite amiche, sempre noi, sempre uguali.

Tutte diverse dall’anno precedente.

Un paio d’ore ancora.
Si incrociano sguardi, con le dita si tamburellano i banchi, qualche sbadiglio.
Finalmente la maestra ci congeda, di corsa si scendono le scale, i grembiuli sgualciti, i colletti aperti, i capelli ribelli, i calzini a scoprire le caviglie.

Ed ora che il primo giorno è andato, con ansia aspetteremo le vacanze di Natale.
Ma quella è un’altra storia.

C’era una volta : Le Vacanze

Ciao cara lettrice

Eccoci arrivati al nostro appuntamento mensile .
Spero che sia divertente condividere con me pezzi della mia vita, pensieri, ricordi e considerazioni.
Oggi è un’assolato giorno di fine luglio, primo pomeriggio.

Sono seduta in poltrona, le imposte socchiuse, ascolto il frinire delle cicale che, come un mantra, mi rilassa e mi porta indietro alla mia gioventù, del termine delle scuole e le lunghe vacanze da godere.

C’era una volta la vacanza estiva, iniziava poco prima della fine della scuola a risultati già acquisiti.

Già ai primi di giugno l’aria vacanziera si insinuava nella pelle, tra le ossa. Durava tre mesi, fino a settembre ed in questo periodo ci si scordava dei compiti, delle lezioni e delle tanto temute interrogazioni.

L’unico nostro pensiero era quello di giocare, giocare, giocare.

Non avevo mai il problema di sentirmi sola, anzi ogni tanto ne sentivo l’esigenza.

La giornata era scandita da ritrovi in bicicletta con gli amici, il ghiacciolo comprato nel bar del paese, lunghi pomeriggi sonnolenti ad aspettare che gli adulti si riposassero e che il gran caldo desse un po’ di tregua. In questi momenti era severamente vietato urlare ridere e correre, a me piaceva scrivere sul diario qualche pensiero, qualche segreto, a disegnare e poi via, di nuovo fuori con gli amici che le quattro mura erano troppo strette. Si ritornava la sera sporchi, accaldati e felici, a contendersi la doccia per poi potersi sedere per primi a tavola.

E poi c’erano le gite al mare! Poco meno di 30 km ma era un viaggio, un’avventura. Sveglia presto la mattina, indossare i costumi, colazione e via. In sei stipati sulla 127 verde di mio papà, naturalmente senza aria condizionata, carichi di giochi, salvagente, asciugamani, bevande e panini.
Bagni e castelli di sabbia.

Castelli di sabbia e bagni.

Ghiacciolo! Tutto il giorno così, fino al tramonto. Un po’ alla volta si recuperavano asciugamani, secchielli e palette. Metter via le bocce che ne mancava sempre una all’appello ed allora caccia al tesoro. Eccola eccola gridava un mio fratello, ma no è una conchiglia rispondeva mia sorella e così finché, finalmente, la si trovava.
Come montavamo in macchina il sonno vinceva sulla nostra eccitazione ormai scemata. La nostra pelle reclamava il fresco di una doccia, la 127 reclamava una pulita a fondo. Gli unici a non reclamare mai erano i nostri genitori, sicuramente più stanchi di noi ma divertiti dal nostro entusiasmo.

Giugno e luglio trascorrevano così e poi: Finalmente Agosto!

Agosto casa nostra diventava un porto di mare, l’approdo certo di tutti quei parenti che, per vari motivi, ormai vivevano lontani dal paese natio. Parenti, per noi bambini/ragazzi, significava principalmente l’arrivo dei cugini. I primi momenti a guardarci timidamente, a stupirci di come “eravamo” cambiati in un anno ma poi tornavano i gesti di sempre, quelli conosciuti da una vita e la timidezza di colpo svaniva.

Si iniziava sempre con dialetti o lingue da decifrare, poi con racconti e novità da scoprire e nuovi giochi da imparare.
E dolcemente agosto passava così, tra sagre, gavettoni, angurie, in un tempo indefinito. Poi le prime partenze, i primi saluti, i primi abbracci e la voglia che un’altro anno arrivi veloce per incontrarci di nuovo.

Settembre, inforco di nuovo la bici, l’andare è un po’ lento, il mio spirito sognante. La strada che percorro sarà la stessa per nove mesi.

La prima campanella mi riporta definitivamente sulla terra.
Uno stentoreo “Buongiorno ragazzi” mette fine al brusio di ritrovati compagni.
Aprite il libro a pagina 10 è la conferma che un nuovo anno è iniziato, tutto il resto è alle spalle.

Poi apro il diario, mi scivolano per terra alcune cartoline spedite dai miei cugini con saluti e qualche ricordo. Le raccolgo lesta, le guardo e penso, sì è tutto alle spalle ma quanto divertenti sono state le vacanze?

P.S.
Spesso riguardo le cartoline di molti anni fa, le stesse che mi sono scivolate fuori dal diario. Oggi non potrebbe succedere questo, al massimo potrebbe cadere un telefonino aperto su whatsapp ed un po’ mi dispiace.

BUONE VACANZE

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